© © 2023 - Carmine Montella, Baiano (Av). Senza l’autorizzazione scritta del titolare del copyright è vietato l’uso di testi, immagini e video del sito.

Storia dei paesi del Baianese

Le porte dell'Irpinia:

Avella, Sperone, Baiano, Sirignano, Quadrelle, Mugnano

Le notizie riportate in questa pagina sono state rilevate 
dal CD "Zibaldone informatico storico-letterario" 
pubblicato dall'Assessorato alla Cultura della Provincia di Avellino

 


Avella


"Sobre un monte sta el castillo, bello y grande"

E' qui la porta dell'Irpinia, nella valle del Clanio che si dilunga sotto le alture del Ciglio di Avella, sull'antica strada delle Puglie proveniente da Napoli. Questa strada ha perduto la sua antica importanza, sostituita dall'autostrada A/16; il traballante traìno che andava a Napoli al tempo dello "zampugnaro nnammurato" è solo un ricordo.
E' qui il passaggio dalla Campania Felix all'Irpinia montuosa, in una "singulare abundantia" di prodotti e "imputatae vitae" che salgono sui rami degli alberi, paesaggio che Petrarca, pur non essendo arrivato in questa valle, celebrava nel suo "Itinerarium syriacum", un viaggio immaginario in Terrasanta.
Questo territorio, già aggregato alla Terra di Lavoro, solo del 1861 è entrato a far parte della provincia di Avellino. Il paesaggio cambia, le ramificazioni dei filari tendono in alto, e arbusti dalla corteccia marrone e dalle foglie di un bel verde intenso spandono le loro chiome sotto l'azzurro del cielo, in un intrico di sentieri che vanno di colle in colle.
Ecco la "singulare abundantia" di frutti che celebrava il Petrarca, i nocelleti, ma abbondano anche alberi di pesche, ciliegi, melograni, e mele che costituiscono il vanto di Avella, la "malifera Abella", che, secondo alcuni, le dettero il nome (abel ed apfel significano mela).
Come sempre avviene per località antichissime, si è cercato nel passato un mitico fondatore di Avella, e lo si è trovato in Èbalo, alleato di Turno che si opponeva ad Enea sbarcato sulla costa laziale.
Ne favoleggiò Virgilio:
"Di costui si dice
che non contento del paterno regno,
Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,
fè d'esterni paesi ampio conquisto,
e fu re de' Sarasti e delle genti
che Sarno irriga. Insirognissi appresso
di Bàtulo, di Rufra, di Celenne,
e de' campi fruttiferi d'Avella". (Eneide, VII)
Èbalo abbandonò Capri, aspra e rocciosa, abbandonò i Teleboi e venne a conquistare le fertili contrade del Sarno e del Clanio e i campi fruttiferi d'Avella. Ma anche prima che Èbalo venisse, gli aborigeni di quattromila anni prima di Cristo avevano abitato il territorio, lasciandovi quelle ceramiche ad impasto e quei manufatti litici che successivamente sono affiorati dal suolo.
I primi villaggi sorsero sulle alture del Clanio, mille anni prima di Cristo, e con gli abitanti di questi villaggi i Greci e gli Etruschi della costa tirrenica, i Greci di Cuma e di Neapoli, cominciarono ad avere scambi e contatti commerciali, rapporti così frequenti e intensi che si disse essere Avella stata fondata dai Calcidiesi.
Se Greci ed Etruschi avanzavano da ovest, Sanniti avanzavano da est. I primi lasciarono, come segni della loro frequentazione, oggetti e manufatti simili a quelli ritrovati a Cuma ed a Pithecusa (Ischia), i secondi seppellirono i loro morti sulla collina del Clanio; Avella era ormai luogo di incontro tra genti della pianura campana e genti provenienti dalla valle del Sabato.
Ma non tutto fu pacifico, giacché i Sanniti, volendo proteggersi le spalle nell'avanzata verso la Campania, la distrussero; i cinturoni ed i vasi a vernice nera rinvenuti nelle tombe a cassa sono i segni della loro presenza. I Greci, per conto loro, avrebbero costruito, a guardia del confine verso la Campania, il fortilizio che si disse castello del Litto (Alicton).
Il documento più importante sui rapporti degli avellani con gli Osci e gli Etruschi, è il famoso cippo avellano, un blocco di pietra con iscrizione in lingua osca ed etrusca per regolare i rapporti tra Abella e Nola, tra popolazioni e genti di diversa origine ma conviventi nello stesso territorio, "tèrum muinìkum". Nel cippo si fa riferimento ad un Masio edile, ad un Tancino tribuno militare, ad un'offerta di grano e farro al dio Pàtulus corrispondente a Giano, ad un Larte-Amnur pontefice, e ad un'autorità che sarebbe una specie di Senato. Il cippo, miracolosamente riemerso dopo secoli e secoli in cui giacque sepolto, databile verso il secondo secolo prima di Cristo, è custodito nei locali del Seminario di Nola.
La necropoli del sesto secolo prima di Cristo, i vasi di bucchero con colorazione bruno-rossastra come quelli di Nola e Capua, le tazze ioniche come quelle di Velia, sono i documenti che ci raccontano la vita di Avella in quel tempo, vivace e molteplice, come pure le numerose statuette votive che genti dell'interno deponevano nei templi di Giano e di qualche altra divinità, una vita in una città dove i Sanniti Caudini avevano costruito solide mura difensive in "opus incertum", cioé con blocchetti irregolari di tufo, il cui tracciato è argomento di ricerca per studiosi e per archeologi.
Poi apparvero i Romani, aspre guerre li contrapposero ai Sanniti, vi si stabilirono, occuparono Avella, e ne fecero una città "foederata", una città legata a Roma da vincoli di alleanza.. Ed Avella rimase fedele a Roma fino alla guerra sociale, quando tornarono i Sanniti e Papio Mutilo la saccheggiò e incendiò: tracce di quell'incendio sono ricomparse dopo duemila anni, per effetto di una esplorazione archeologica del 1970. La città rimase romana quando Silla vi dedusse una colonia di veterani e distribuì loro le terre; altre città furono distrutte, ma Avella fu risparmiata, e gli avellani, grati a Silla, eressero un tempio in suo onore e forse un monumento, perché una grossa pietra ancora porta inciso il suo nome (Sillae S.)
Avella fu "municipium" e Vespasiano vi fece affluire altri veterani nel primo secolo dopo Cristo. E' interessante vedere, o intuire, i segni della città "foederata" o "municipium", le terme, il forum, le sei porte, le strade incrociantesi, cioè i decumeni orientati da est ad ovest ed i cardini orientati da nord a sud; il decumanus maior coincide con l'attuale Corso Vittorio Emanuele.
Ancora parla di Avella l'anfiteatro, un po' fuori, con l'arena, il podio, la càvea, i sedili, il tutto in "opus reticulatum", tipica costruzione romana in pietre di tufo squadrate e ordinate. Nell'anfiteatro accorrevano schiere di Avellani per assistere alle competizioni che spesso si trasformavano in rissa.
Le basi delle statue onorarie e le epigrafi raccolte nella piazza ricordano, a noi lontani, Numerio Marcio Pletorio, Numerio Peto Rufino, Numerio Pletorio Onirio, Lucio Sitrio Modesto, Lucio Egnazio Invento, ed altri personaggi ragguardevoli che si aggiravano tra la basilica e la curia, oggi scomparse. C'era anche il teatro, dove gli Avellani andavano ad assistere alle recitazioni ed alle parodie in cui si esibivano i mimi, condendole con frizzi e con le arguzie napoletane e puteolane.
Le strade esterne erano punteggiate da monumenti funerari, come quelli che ancora si vedono lungo le strade esterne di Santa Maria Capua Vetere, corpi quadrangolari con la parte superiore cilindrica. 
Altro documento dell'opulenza di Avella è il mosaico di età imperiale, raffigurante l'uccisione di Laio re di Tebe ad opera del figlio Edipo, conservato oggi nel Museo Nazionale di Napoli.
Era una città prospera e attiva, che mantenne la sua opulenza e la sua vivacità durante l'epoca imperiale, specialmente nell'età di Vespasiano.
Roma decadde, e decadde Avella. Quando i Goti di Alarico e i Vandali di Genserico invasero la città, gli Avellani ripararono sulle alture circostanti; quando Ungari e Saraceni facevano le incursioni ci fu desolazione.
I Longobardi, dopo la conquista, imposero la loro pace, e sull'altura del Litto, dove era l'acropoli antica, costruirono il loro castello, nel settimo secolo, castello che i Normanni fortificarono con tre torri quadrate, il mastio, la torre cilindrica, i corpi di fabbrica per gli uomini d'arme e gli uomini di servizio, le feritoie e le caditoie. Il fortilizio longobardo, a difesa del gastaldato di Nola, rimase a segnare il confine che il Principe di Salerno aveva segnato anche qui, scolta avanzata verso il Principato di Benevento, ed offrì un rifugio contro gli Ungari del decimo secolo.
I Normanni di Aversa debellarono Ungari, Saraceni, Bizantini e Longobardi, e con Arnaldo iniziarono il loro dominio, che si stendeva sui territori vicini di Baiano, Sirignano, Sperone, Mugnano, Litto. Questo dominio della nobile famiglia De Avella durò per trecento anni, dal 1045 al 1356, durante le epoche normanna e sveva. L'ultima, Francesca de Avella, portò in dote il feudo ad Amelio Del Balzo, discendente di quei Del Balzo che eran venuti dalla Francia con Carlo d'Angiò; dopo una trentina d'anni Giovanna Del Balzo, per matrimonio trasmise il feudo a Nicola Giamvilla, che andava consolidando il suo dominio da S. Angelo a Cassano. La regina Giovanna II ne ordinò la confisca, per una vera o presunta ribellione, e il feudo passò a Sergianni Caracciolo. Dopo qualche anno acquistò il feudo Raimondo Orsini, signore della vicina Nola, e poi lo acquistò Pietro Spinelli.
Nel primo cinquecento diventò Signore di Avella Girolamo Colonna, che legò il suo nome alla costruzione ed al ritorno degli Avellani nel piano, dove era stata la città romana, dopo la lunga permanenza sulle alture del Litto.
Dai primi del seicento sono Signori di Avella i Doria Del Carretto principi di Melfi, fino all'ultimo signore, Giovanni Andrea III.
Sorge il Palazzo Ducale nella piazza principale di Avella; ha una lunga facciata segnata da cornice marcapiano, due portali arcuati, una fila di finestre; è imponente, ma in uno stato di abbandono e fatiscenza, nonostante il restauro fatto da Carlo Spinelli che a metà del cinquecento lo ridusse "in splendiorem formam". Nel settecento fu dotato di un magnifico parco, ricco di piante e di alberi. Il platano centenario, vanto degli Avellani e del parco, è stato colpito non è molto da un fulmine.
Le case di Avella sono allineate sulla via principale, che corrisponde al "decamanus maior", così pure i palazzi nobiliari, fra cui il palazzo d'Avanzo in cui visse il Cardinale Bartolomeo D'Avanzo. Nella chiesa di Santa Susanna a Roma una lapide, apposta nel 1880, ricorda che il Cardinale D'Avanzo ebbe il titolo di Santa Susanna e rifece il pavimento della chiesa omonima. Lo sviluppo edilizio di Avella è andato così oltre da congiungere le case di Avella con quelle di Sperone e di Baiano. Davanti alle case sono frequentissime le esposizioni di cumuli di "fuscelle", prodotto dell'artigianato locale, involucri di paglia per riporvi la ricotta.
E' molto singolare lo spettacolo che offre Avella. Davanti ad ogni casa sono distesi larghi teli, per terra, in cui le nocciole, esposte al sole, formano un tappeto di colore, fra il rosa e il marrone. Il nocciolo, introdotto in Italia in epoca antichissima, attecchì nelle campagne del Piemonte, del Lazio e soprattutto dell'Irpinia. Ne ho visti sulle pendici del lago di Vico, sui monti Cimini, a Caprarola, Carbognano, Soriano, Vallerano, ma mai tanti quanti ne vedo qui: sono ventimila ettari di "corylus avellana", che qui chiamano nocelle "sangiovanni", che danno cinquecentomila quintali di nocelle all'anno e che prendono le vie delle fabbriche di torrone, di cioccolatto, di "nutella" e di "copèta", quel torrone bianco diffusissimo sui banchi delle feste paesane e delle fiere. Mi interrogo ancora se fu Avella a dare il nome al suo frutto tipico, le avellane, ovvero se furono le avellane a dare il nome ad Avella. Se n'è discusso per secoli; furono chiamate per la provenienza "nuces ponticae"; Plinio le disse noci "quos abellinas patrio nomine adpellabant".
E' visibile da ogni parte il Ciglio di Avella, barriera montuosa che difende il paese dai venti settentrionali e separa la vallata del Clanio dalla valle Caudina. Il piccolo fiume che la percorre, ora all'aperto, ora nascondendosi in rivoletti che si perdono fra i campi, è il Clanio, l'antico Clanis, che, per l'impadulamento delle sue acque, preoccupò i vicerè di Napoli, da don Pedro de Toledo a don Fernando de Castro, fino a che il deflusso delle acque fu regolarizzato ed imbrigliato da Giulio Cesare Fontana, da Avella e Nola al mare, e si eliminò la piaga della malaria.La provvidenziale canalizzazione fu detta dei Regi Lagni (dove Lagni è deformazione dialettale di Clanis).
Passeggiare in paese vuol dire fare piacevoli scoperte. Il convento di S. Francesco ha un portico con archi retti da colonnine e la volta affrescata dall'avellano Ardelio Buongiovanni; tele del settecento arricchiscono la chiesa attigua, preceduta anch'essa da un portico ad archi con colonnine romane; il soffitto a cassettoni dorati ha altre tele del settecento. La chiesa di S. Pietro, antica ma rifatta nel seicento, ha utilizzato elementi romani, un'edicola funeraria di Sitrio Modesto inserita nella facciata, ed un sarcofago di Vero e Prenestina all'interno; due campanili racchiudono la facciata a capanna, illegiadrita da un rosone.
Tipicamente settecentesca è la Collegiata di S. Giovanni, il cui campanile, separato dalla chiesa, si eleva da un basamento scarpato e termina a cuspide. Il suo titolo antico è San Silverio, preesistente basilica del VI secolo. Marmi policromi, acquasantiere del cinquecento, il sarcofago del cardinale d'Avanzo, tele del settecento, un Redentore del Tramontano la impreziosiscono, ma il pensiero va, com'è naturale, all'antico titolare della chiesa, papa Silverio. 
Nella "Geografia dell'Italia", pubblicata nel 1898, lo Strafforello si dice certo che Silverio era un prete di Avella, nominato vescovo nel 514, diventato Papa nel 536. Erano i tempi della guerra gotica, i Goti avevano occupato Roma, e l'imperatore Giustiniano mandò Belisario a liberarla. I Romani erano incerti: chi seguire, il generale bizantino o il re dei Goti? Venne mandata a Costantinopoli una ambasceria, di cui faceva parte il Papa Agapito, che a Costantinopoli, ammalatosi, morì.
L'imperatrice Teodora sosteneva un personaggio di suo gradimento per la nomina a pontefice, Virgilio, e lo mandò a Roma con le sue credenziali per l'elezione. Ma Virgilio giunse tardi, quando già il popolo aveva eletto Silverio, e Silverio non ebbe vita facile perché a Roma la moglie di Belisario, Antonina, era legatissima all'imperatrice. Antonina era figlia di un cocchiere, era donna di teatro e menava vita scandalosa. Scrive Procopio: "Antonina era vissuta con dissolutezza e senza alcun freno, e aveva acquistato grande familiarità con i maleficii... Quando diventò sposa di Belisario, commise anche adulterio... e non sentì vergogna per qualunque azione" (Storia inedita, cap. 9). Possiamo vedere la sua immagine nel mosaico di S. Vitale a Ravenna, dove essa è raffigurata accanto all'imperatrice Teodora.
Silverio non volle comparire dinanzi a Belisario e Antonina: esiliato, continuò energicamente a proclamarsi legittimo vescovo di Roma, riaffermandone il primato sugli altri vescovi. Giustiniano ebbe un ripensamento, ordinò la revisione del processo e la revoca dell'esilio. Ma il viaggio di ritorno di Silverio finì a Ponza, dove morì di stenti e privazioni, e dove, dice il Liber Pontificalis, fu sepolto. A Ponza il sepolcro di Papa Silverio non c'è,ma in suo onore e in sua memoria i ponzesi eressero una cappelletta nell'isola Palmaria, dove una tradizione ricorda la sua sepoltura; i Ponzesi lo vollero loro protettore, e da allora un ponzese su due porta il suo nome.
Belisario ebbe rimorso per le persecuzioni inflitte a Silverio, e, come espiazione della sua colpa, costruì in Roma una chiesa: è quella di S. Maria in Trivio, in piazza Fontana di Trevi, con ospizio per ammalati e pellegrini. Una lapide murata all'esterno dice che Belisario la costruì "per ottenere il perdono dei propri peccati".

In una valletta incuneata fra alte colline, immersa in folta vegetazione che ricopre pareti scoscese, si apre la grotta degli "sportiglioni", come chiamano qui i pipistrelli che vi si aggirano e volteggiano in gran numero. La grotta è vasta e spaziosa, con pavimento molto inclinato, ingombra di pietre e terriccio, sdrucciolevole per l'umidità. Attraverso uno stretto passaggio si entra in una spelonca dove la fioca luce della torcia si riflette sulle pareti; le stalattiti e le stalagmiti, curioamente stratificate, son chiamate "pietra d'Avella". Nel vallone Fontanelle, tra rocce impervie e scoscese, in mezzo ad una vegetazione fittissima, si apre un'altra grotta, forse abitata in epoca preistorica, certamente usata come ricovero degli abitanti all'epoca di barbari, saraceni, ungari, cui si accede per un basso arcosolio. 
Affreschi bizantini, rappresentanti Cristo benedicente e San Cristoforo, ornano le pareti; una Madonna con bambino ha la fissità bizantina e la carica umana dell'arte italiana; un San Michele che allarga le ali sovrasta due santi, con gli occhi sbarrati. In un altro vano un baldacchino di fattura recente offre al visitatore la visione di una statuetta di S. Michele; un po' dovunque, dipinti parietali del dodicesimo secolo, e, dietro il baldacchino, un altare primitivo ci dice che la grotta fu usata come cimitero paleocristiano, al tempo dell'arciprete Comiziolo, nel V secolo, cui fu dedicata una lapide. La grotta di San Michele è il più importante ricordo dei Longobardi di Avella.
I Longobardi del Ducato beneventano, stabiliti anche ad Avella, dove eressero il loro fortilizio, consacrarono al loro santo la grotta, già usata come ricovero e come cimitero. La conversione al cristianesimo era già avvenuta, il mondo latino e longobardo era rimasto sbalordito dall'apparizione dell'Arcangelo sul Monte Gargano, nel 490. Si diceva che il vescovo e il popolo di Manfredonia avevano visto una grande luce all'imbocco della grotta ed avevano sentito una voce che gridava "questo luogo è sacro all'arcangelo Michele". Da quel tempo cominciò il passaggio dei pellegrini diretti in Terra Santa, poi dei Crociati, dei papi e dei santi. 
Nell'anno 647 Duca di Benevento era Grimoaldo "che governò per venticinque anni. Era un guerriero valorosissimo e famoso in ogni contrada. Una volta sbarcarono dei Greci che volevano saccheggiare la chiesa dell'Arcangelo sul monte Gargano, ma Grimoaldo piombò su di loro con il suo esercito e li sterminò" (così Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, 46). Forse il saccheggio fu fatto dai Saraceni, o anche dai Napoletani, ma è certa la cacciata dei sacrileghi, per documentazione storica, ed è certa la guerra che Grimoaldo mosse ai Greci, e la sua vittoria su di essi. Dell'impresa di Grimoaldo s'impadronì la leggenda, il santuario del Gargano divenne sempre più celebre, ed i Longobardi di Avella, come gli altri Longobardi dell'Irpinia, furono sempre più devoti all'arcangelo Michele, erigendogli altari e dedicandogli località. Il più grande monumento in suo onore fu la basilica di S. Michele, in Pavia, ma la grotta di Avella è testimonianza ugualmente importante.
Un'altra leggenda, che trae origine da un fatto storico ricordato da Gennaro Aspreno Galante in un suo panegirico in onore dell'avellano cardinale Bartolomeo d'Avanzo, è questa. Un giorno "il sacerdote di Cristo, con il liquore prodigiosamente emesso da sterili pampini, infuse vita novella nelle languide membra del pastore della sede nolana". E' il ricordo del prete San Felice, che imbattutosi nel vescovo San Massimo, moribondo per le persecuzioni e i supplizi, lo ravvivò con un grappolo d'uva prodigiosamente nato da un cespuglio. L'uva che miracolosamente spunta dal cespuglio è un fatto ricorrente nella fantasia meridionale. Anche ad Ortucchio, in Abruzzo, nella piana del Fucino, alcuni secchi sarmenti rinverdirono miracolosamente, si copersero di tralci, foglie e grappoli quando un altro santo, Sant'Orante, cadde morente su di essi.

L'indole allegra e festaiola degli Avellani si tramanda con alcune ballate o rappresentazioni. Una di queste è "Lu laccio d'amore", un ballo intorno ad un albero, il "maio", per propiziare la fertilità della terra, secondo antichissimi riti contadini. All'albero sono attaccati tanti lacci colorati, che vengono presi e lasciati da gruppi di danzatori mascherati, che s'intrecciano, s'incrociano, si sciolgono, si allontanano, secondo figurazioni pittoresche, mentre suona la fisarmonica. Un'altra cantata popolare è dedicata ai mesi dell'anno, da "o capo 'e ll'anno" (gennaio) al "mese re' figliole" (aprile), a giugno che porta "fave e fasùle, cìceri e cicerchie", a dicembre "ccu stu friddo che ve fa tremmà".
Ed ancora, molti canti esaltano le bellezze del territorio; come questo: "Quanno me pare bbella ra luntano l'acqua re li Funtanelle";
dopo aver deriso le "scassalandrelle" di Quadrelle, i "ricuttari" di Mugnano, i "craunari" di Sperone, l'amore per il paese esplode con
" e nenne belle songo r'Avella".
E' suggestiva ed emotiva l'usanza di aprire ad ottobre i loculi del cimitero e procedere alla "pulizia dei morti" ed al cambio degli indumenti; l'usanza è meno macabra di quanto possa apparire perché ad Avella abbonda un pietrisco argilloso che conserva bene i corpi dei defunti, sicché questi si offrono ai visitatori così com'erano.

***************************************************
Gli ex "casali" di Avella

Sperone

Appena superato il confine della provincia di Napoli, nell'ampia conca avellana, ad un bivio per Avella, è l'abitato di Sperone. Anche qui v'erano terreni fertili, che i veterani di Silla occuparono e ne divennero assegnatari, costruendo ville rustiche che furono i primi nuclei dei casali, tra campi di grano, vigneti, frutteti, oliveti. Alla sporgenza di una fortificazione, simile ad uno sperone, si sviluppò un casale, pertinenza dei signori e feudatari di Avella fino all'autonomia amministrativa, conseguita nel 1836. 
E' una striscia di "Campania Felix" che si insinua tra le colline irpine fino a Baiano e Sirignano.

Baiano

"es tierra fertil de vino, olio, granos y aves " (Vagner)

Si chiamava Badius o Velleius il proprietario romano che aveva un ricco e vasto praedium in questa zona? Si chiamava Badius, sostiene qualche autore, e dette il nome al praedium su cui si sviluppò in seguito il casale; le cose non cambiano se si chiamava Velleius, perché il praedium Velleianum si trasformò in Baianum. 
L'attuale Baiano è chiusa a nord dai monti d'Avella, a sud dal territorio della foresta di Arciano; ad est il Partenio e i monti di Monteforte le sbarrano la strada per Avellino. Quali le sue lontane origini? Nell'80 a. C. Silla aveva fatto affluire nel territorio i suoi veterani e con essi aveva formato una colonia; i campi, già degli Avellani furono dati ai coloni sillani che chiamarono le loro famiglie.
Dopo meno di un secolo, Augusto immette altri coloni, che ripopolano le campagne e costruiscono ville prediali. Vi si rifugiano poi gli Avellani per sfuggire Goti, Ungari e Saraceni, tra i monti e le grotte di cui il territorio era ricco. Sorgono abitazioni nel tredicesimo secolo, abitazioni e terreni che furono pertinenza di Avella: è il primo nucleo di case rurali intorno alla villa prediale, e Baiano, pur continuando a dipendere dalla baronia di Avella, acquista una sua identità e nei documenti viene menzionata separatamente.
Quindi, per un certo periodo i Signori di Avella sono anche Signori di Baiano, da Arnaldo normanno dei primi anni del mille a Nicola Giamvilla ed agli angioini Della Leonessa, da Sergianni Caracciolo a Enrico Orsini conte di Nola che nel 1510 creò la Bagliva di Baiano, ufficio finanziario, amministrativo e giurisdizionale, e pose le basi dell'autonomia; la donò poi a Tommaso Mastrilli nobile di Nola. 
Giovanni Andrea Doria la comprò nei primi anni del seicento e la riunì nuovamente ad Avella, che pure aveva acquistata; i suoi discendenti la tennero fino all'abolizione della feudalità. Ma con Avella ci furono liti annose per il godimento dei demani faudali e per gli usi civici, fino al conseguimento dell'autonomia ed al distacco definitivo. 
Tra Nola e Baiano c'era una grande foresta, dove, nel corso della guerra punica, si occultò con un suo reparto il console Claudio Nerone per poter piombare a sorpresa addosso ad Annibale, che si muoveva tra Napoli e Nola. 
Perduto l'orientamento a cagione dell'impraticabilità e dell'intrico fittissimo di piante, fece voto di erigere a Giano una edicola, una arx Iani; districatosi dalla boscaglia e ricongiuntosi con l'altro console Claudio Marcello, e vinto nella battaglia di Nola l'esercito cartaginese, l'edicola- ricordo fu eretta, e da allora il bosco si chiamò Arciano. Oggi ne resta solo il nome. 
Scriveva Gianstefano Remondini nel settecento che "Badianum era vetusta e popolata terra in cui si veggono vestigia di antichi monumenti, infrante colonne, tronchi, busti, e sminuzzate lapidi di marmo. Situato in luogo piano, soggetto a continue alluvioni per le grandi acque che calano da Summonte, dalla montagna della Tora, e dalle altre di Quadrelle e Monteforte, poco lungi tiene i boschi di Arciano e Tuoro abbondanti di castagne e querce, e raccoglie molto frumento e frutti e vino dalle vigne". 
Vi fu costruita la chiesa di Santa Croce, in cui avvenne un miracolo nel settecento, narrato da Enrico De Falco. 
Durante un pauroso temporale cheaveva cagionato un'alluvione, un fascio di luce improvvisamente illuminò la' chiesa e un quadro appeso ad una parete; era il quadro di Santo Stefano. La luce nelle tenebre del temporale parve indicare ai fedeli la via dell'uscita. I fedeli ne furono impressionati, invocarono Santo Stefano come loro protettore, e collocarono in miglior posizione il quadro, che poi prese la via di Sirignano e non é più tornato a Baiano.
Venne a cercar proseliti a Baiano il prete Menichini, in preparazione della sommossa del 1820, con scarsi risultati per l'antica fedeltà dei Baianesi al sovrano, l'indifferenza verso gli agitatori e l'impreparazione politica. 
Le sorti di Baiano migliorarono quando un tronco ferroviario ebbe qui il suo termine e la congiunse più comodamente a Napoli. 
Ma bande di briganti infestarono il territorio dal settecento alla metà dell'ottocento, la banda La Gala, la banda Picciocchi. Era questi uno strano personaggio, che rubava ed uccideva ma leggeva anche l'enciclica di Leone XII che conservava nel portafoglio; rimase ucciso in un conflitto con la milizia cittadina. 
Di due cose i baianesi vanno orgogliosi, dell'altare in marmi policromi che si trova nella chiesa di Santo Stefano, e della festa del "maio". 
E' il "maio" un grosso albero (da maius) che viene abbattuto e innalzato come un trofeo dinanzi la chiesa. Il taglio dell'albero, il trasporto, l'innalzamento, il depezzamento finale sono momenti di un rito antico con l'unica variante che la festa non è più in onore di un nume pagano, come una volta, ma di un santo cristiano, Santo Stefano. 
I falò, gli spari, i lanci di "tracchi" son sempre quelli. Nell'occasione, a Baiano, sparano tutti, con vecchi fucili, armi permesse, armi vietate, botti, fino a quando una nuvola di fumo si confonde con la nebbia serale.
Anche in qualche paese dell'Alto Adige vige l'usanza del palo di maggio (maistanga, maio); intorno all'albero, ornato di fiori di campo e frasche, si balla, si canta, si mangia, si festeggia il solstizio di giugno. 
E' questa di Baiano, una festa pagana che rimonta al culto di Cibele, madre degli dei, degli uomini, degli animali e delle messi, protettrice dei campi. Il suo culto si propagò dalle colonie greche di Napoli e Pozzuoli fino a Nola, fino a Baiano, fino al Partenio dove aveva un tempio. Si portava in processione l'albero sacro a Cibele, il pino, simbolo della giovinezza e della primavera. Santo Stefano ha preso il posto di Cibele, i Baianesi tripudianti han sostituito i Coribanti, e il maio è rimasto. 
Il 18 settembre 1943 è un brutto giorno per Baiano: cacciabombardieri americani sganciano sul paese una decina di bombe e provocano una strage; la gente, atterrita, per timore di altre incursioni, corre a rifugiarsi trai monti di Avella e di Quadrelle. Ai primi di ottobre una colonna di soldati americani scende da Monteforte, ed un'altra scende da Summonte. E' finita la guerra per Baiano; è cominciato il dopoguerra. 

Sirignano 

Sale per breve tratto dalla via maestra la strada per Sirignano, che fu casale di Avella. Il toponimo deriva dal praedium serenianum, di proprietà del romano Serenius, una delle tante ville rustiche che erano disseminate nella campagna di Avella. Del praedium serenianum non si hanno notizie nell'epoca romana e altomedievale, non aveva storia una semplice proprietà terriera. Dopo il mille troviamo un Arnaldo o Arnolfo, normanno, figlio di Riccardo d'Aversa, signore di Sirignano e anche di Baiano; succedono i suoi discendenti, per oltre due secoli, fino a Rinaldo de Avella al tempo di Federico II, e poi a Guglielmo de Avella.
Nel praedium erano sorte abitazioni, il praedium si era popolato, ed era diventato casale, il suffeudo Sirinianum. 
I Del Balzo e i Giamvilla ne ebbero il dominio, come degli altri casali; e Sergianni Caracciolo, il potente amico Giovanna II, ne fu Signore nella prima metà del quindicesimo secolo; Isabella Caracciolo trasmise il suffeudo al marito Raimondo Orsini conte di Nola. 
Passa da una famiglia all'altra e finisce ai genovesi Doria del Carretto. Dalla fine del settecento un discendente dello spagnolo Alvaro Garavita un grande di Spagna venuto con Alfonso d'Aragona, diventa Principe di Sirignano. Il principe Giuseppe Caravita sul posto del castello dei Caracciolo della Gioiosa costruì un sontuoso palazzo e ne fece luogo di ritrovo dell'aristocrazia napoletana. 
Il palazzo Caravita, ben conservato, si articola intorno ad un giardino; la parte centrale si affaccia sulla piazza del paese; ha due torri laterali e una torre centrale che sovrasta il portone d'ingresso, di pregevole fattura, con riquadri e decorazioni in legno; unaloggia è sopra il portone e, più in alto, lo stemma della famiglia, un leone con fascia e tre stelle. La torre termina con una merlatura guelfa, caditoie e beccadelli. Nel quartiere Chiaia a Napoli il rione Sirignano ha preso nome dai palazzi della famiglia. 
Giuseppe Caravita fu "attachè" del governo piemontese a Parigi col ministro Pasquale Stanislao Mancini. Sposata la bella, giovane e ricca marchesa Gandara, ritornò a Napoli e fece del palazzo irpino un luogo di festee di ritrovo della società napoletana. Dinanzi alla chiesa di S. Andrea si celebra anche a Sirignano la festa del "maio", con qualche variante: sono abbattuti alcuni alberi dei boschi circostanti, privati dei rami, e portati in processione, trainati da camion, tra lo sparo assordante di tracchi e botti. I tronchi vengono deposti in piazza, dove rimangono finché non sono venduti; il ricavato serve per la festa. Il falò in piazza è acceso la sera precedente. Il palazzo che fu sede del Municipio, fu costruito da Carlo Vanvitelli. Dal 1861 Sirignano, dopo aver conseguito l'autonomia amministrativa, fa parte della provincia di Avellino, come gli altri paesi e casali del nolano fino alla barriera del Partenio.

Quadrelle 

Altro casale fu Quadrelle, poco distante da Sirignano, su un ripiano che scende dal Ciglio di Avella. Vi si trovano tracce di epoca romana, c'era un antico castello, e in età normanna intorno al castello gli abitanti costruirono le loro case, che formarono un casale. 
Un cavaliere normanno pose la sua abitazione in un edificio con quattro torri, situato dove ora è la casa Pagano. Queste quattro torri della casa fortezza figurano nello stemma civico, e, secondo alcuni, dettero il nome al casale. Tommaso Scillato ebbe in suffeudo da Carlo Il d'Angiò il casale di Quadrelle, la cui storia si confonde con quella di Avella, fino Ala costituzione in comune autonomo nel secolo XVI. Francesco Scandone invece riconduce il toponimo alle "quadrellae", frecce a quattro punte che gli antichi abitanti costruivano con il legno dei boschi del Partenio, o anche ai pugnali quadrangolari che pure vi si fabbricavano. Dal 1567 Quadrelle appartenne alla Casa dell'Annunziata di Napoli, che l'aveva acquistata e che vi costruì la chiesa che ancora porta il nome della Santissima Annunziata.
Le rovine del castello furono utilizzate nel cinquecento per il palazzo baronale della famiglia Pagano, notevole per i molti alberi secolari e peri giardini che lo circondano. 

Mugnano del Cardinale

"Lumena - pax te - cum. fi"

Nel territorio da Avella a Mugnano si stendeva la folta foresta che si chiamò dell'arx Iani, e quindi Arcione, per un'ara dedicata a Giano dal console romano Claudio Nerone, che vi si era sperduto durante le operazioni contro Annibale. In fondo alla valle che comincia ad Avella, prosegue per i territori di Sperone e Baiano lungo la costiera del Tavertone e del Morricone, e si restringe nella gola del Gaudio, si trova Mugnano, sotto i bastioni di Monteforte e la muraglia del Partenio. 
A ridosso c'era una volta il castello del Litto, di cui, nei primi anni del secolo scorso, si vedevano gli spalti delle torri e le torricelle, le mura di cinta ed un cunicolo, oggi ridotti ad informi macerie. Si è favoleggiato di un tempio al dio Lydus, eretto da una colonia di Lidii o di cittadini di Lyctos, città cretese, ma le ipotesi sono prive di fondamento storico; più verosimile è che alcuni avellani vennero a stabilirsi sull'amena spianata, tra il quinto e il quarto secolo a. C. e che, successivamente, in epoca tardomedioevale fu costruito un castello per controllare il passo del Gaudio, castello oggi scomparso. Ma già prima che gli Avellani vennissero a stabilirsi sulla spianata, questa era frequentata dai Greci di Cuma e Napoli che vi avevano costruito un tempio dedicato a Cibele, come quello sul Partenio. A Cibele, "alma parens dei" subentrava a Montevergine la Gran Madre di Dio. Il castello del Litto sorse quando nella valle muniacense le sparse popolazioni di Pontemiano, Campigliano, e Quadrelle formarono un suffeudo, soggetto ad Avella. Ora come allora, la valle che si apre a ventaglio verso la Terra Laboris, è ricca di frutta, ortaggi, cereali e vino, la collina è piantata a castagni e olivi, i monti sono coperti di faggi.
Nella valle si erano stabilite alcune famiglie soggette al Signore di Monteforte, all'inizio dell'epoca normanna, intorno alla "laura" di Santa Maria ed alla dimora del gasindo longobardo.
Il personaggio che dette nome al casale fu Munius, antico e facoltoso proprietario di terreni del praedium munianum, in cui era una "mansio" per il riposo dei viandanti, mansio divenuta "il maisone". Gli abitanti del Litto, divenuta più tranquilla la situazione, cominciarono a scendere a valle e ad abbandonare una residenza scomoda e isolata, specie quando Carlo d'Angiò restaurò la via che congiungeva Napoli alle Puglie.
Tra Avellani, Longobardi, Normanni, Angioini, le precise notizie storiche difettano, anche perché Mugnano ebbe consistenza e autonomia piuttosto tardi. Sappiamo però che Rinaldo conte di Avella, personaggio ragguardevole della corte angioina, riuscì ad unificare sotto la sua signoria un notevole territorio tra Avella e Salerno, comprendente il castello Litto ed il casale di Pontemiano, che poi donò a Tommaso Scillato di Salerno come suffeudio; il figlio di questi, Riccardo, cedette il suffeudo al Monastero di Montevergine, che andava acquistando importanza, nei primi anni del trecento. Nicolò Orsini conte di Nola ottenne in fitto le terre di Litto, Pontemiano e Quadrelle, ed alla fine del trecento le incorporò nella baronia di Avella unitamente a Monteforte.
Le sorti di Mugnano, frattanto organizzata a universitas, si intrecciano con quelle di Raimondo Orsini, marito di Isabella Caracciolo ed alleato di Marino della Leonessa in una guerra alla Badia di Montevergine; il Papa Martino V fulminò di scomunica gli usurpatori e fece restituire le terre usurpate alla Badia. Allora il territorio divenne un feudo della Badia di Montevergine, e nei documenti venne indicato con il nome di Mugnano, "homines casalis Mugnani".
Nel quattrocento l'abate feudatario, Palamides, lo alienò al cardinale Ugone Lusignano, cognato della regina Giovanna II, e Mugnano entrò nella Commenda di Montevergine. Era la Commenda un istituto ecclesiastico per cui una chiesa e un beneficio, privi di titolare, venivano affidati, "commendati", ad un personaggio.
Il Cardinale Commendatario governava Mugnano attraverso suoi delegati, anch'essi monaci, e Giovanni d'Aragona, commendatario dal 1466 al 1485, figlio del re Ferdinando d'Aragona, fece costruire il vasto edificio che si chiamò Palazzo del Cardinale, dando nome al rione che cresceva intorno, Cardinale. Fu Giovanni d'Aragona a rinvenire casulamente sotto l'altare di Montevergine il corpo di S. Gennaro, lì nascosto per sottrarlo a pericoli di trafugamenti e danneggiamenti; ; il suo successore Oliviero Carafa lo farà trasferire a Napoli nel 1497, vincendo l'ostinata opposizione dei monaci. Il Palazzo del Cardinale col tempo si trasformò in foresteria, la taverna del Procaccio.
Abate Commendatario era divenuto Ludovico d'Aragona, nipote del re Ferdinando, il quale vendette la Commenda alla Casa dell'Annunziata di Napoli, a metà del seicento. La Casa dell'Annunziata tenne in Commenda Mugnano, Cardinale e Quadrelle sino alla fine del feudalesimo.
Tra il secolo XVII e XVIII Mugnano ebbe il suo maggiore sviluppo edilizio lungo la via per le Puglie, che Carlo III re di Napoli nel 1757 fece riattare e riparare, come già aveva fatto Carlo d'Angiò. Per memoria fu costruita la fontana che si dice del Gaudio: una fascia quadrangolare con scritta dedicatoria e un grande stemma; due volute raccordano la fascia a due rozzi obelischi, alcune cannelle versano acqua in una vasca, dove per molti anni si abbeveravano le bestie; presso la fontana di Carlo III si riposavano i viandanti prima di affrontare la salita di Monteforte; al di sopra, un fastigio curvilineo è in mezzo a due obelischi, di minor dimensione di quelli sottostanti. Dice la lapide che Carlo III costruì la fontana affinché i viandanti si rinfrescassero con l'acqua ("ut anhelos ex ascensu arduo viatores salubritate sua refrigeret").
Ai lati della Via Regia molti edifici sono stati costruiti, con un certo decoro, edifici che sono segni di un benessere che Mugnano ha tratto non solo dai suoi prodotti agricoli ma anche dalla sua posizione, lungo la strada frequentatissima per il passaggio di merci e persone, sotto lo sfondo dell'alberata collina.
Sorgeva sulla costa del Morricone una sontuosa villa romana, la Caesarana, di cui rimangono pochi avanzi, cunicoli, bagni, pilastri. Chi era questo Cesarano? Forse un seguace di Cesare o di Augusto, come si rileva da un'iscrizione sepolcrale, rinvenuta da Giovanni Picariello, celebrante Quinto Calidio, questore al tempo di Augusto, e sua moglie Clitonia Amarillide.
Un cippo rinvenuto nei sotterranei della parrocchia ricorda Mario Cadio, detto Celere, che fece il sepolcro anche per suo padre Caio Cimbro e per suo fratello Caio Rufo, forse discendenti di quei Cimbri che Mario aveva accolto nel suo esercito. 
Nella chiesa di San Pietro e Paolo operò per molto tempo Don Michele Trabucco, missionario di SanVincenzo, dedito alla "rigenerazione del clero ed alla protezione delle plebi"; accanto alla chiesa costruì un oratorio ed una biblioteca. Era uno strano e patetico personaggio che mandava in giro per il paese, di notte, qualche suo confratello per recitare preghiere ad alta voce, la voce del "sentimento notturno".
La chiesa parrocchiale di Mugnano si trova dove sorsero le prime abitazioni del paese, là dove si riunirono gli abitanti dei borghi del Litto, di Campigliano e di Pontemiano; lì c'era una "laura", la "laura di Santa Maria", una di quelle colonie di anacoreti che vivevano in capanne separate, uno di quei villaggi di eremiti che dalla Palestina si diffusero in Europa.
La vecchia chiesa di Santa Maria, distrutta da un incendio, fu riedificata nel quindicesimo secolo. In una delle sue cappelle c'è un bel quadro attribuito a Fabrizio Santafede, pittore napoletano del seicento; nella stessa cappella c'è il sepolcro di tre fratelli Sirignano. Due statue di legno, provenienti dalla chiesa di San Giacomo, già abbandonate, poi opportunamente restaurate, sono ulteriore testimonianza del patrimonio artistico di Mugnano.
La chiesa di S. Maria delle Grazie, dove c'è la cappella di Santa Filomena, risale pure al seicento. L' "altissimo e magnifico" campanile, come lo chiama De Lucia, è ridotto in più modeste proporzioni dopo una sua rovina; il soffitto, dorato e dipinto, è opera di Mozzillo, artista settecentesco baroccheggiante.
In campagna, nella zona Archi, si vedono ancora i ruderi della chiesa di San Silvestro. Da questa chiesa proviene la statua di San Silvestro, che attualmente si trova nella chiesa di Maria Santissima di Montevergine. Non so spiegarmi le ragioni del culto di San Silvestro a Mugnano. San Silvestro è il pontefice con cui si inizia il dominio temporale dei Papi; nel medioevo si dava credito alla donazione di alcune terre che l'imperatore Costantino avrebbe fatta a papa Silvestro, da cui ebbe il battesimo. Dante era ancora indignato con Costantino per "quella dote / che da te prese il primo ricco patre" (Inferno, XIX, v. 116-117)

Tra le famiglie cospicue di Mugnano, la famiglia Rega, a partire dalla fine del seicento ebbe amministratori comunali, parroci, e Giovan Battista Rega, giudice ad Avella, Intendente ad Avellino, Bari, Matera, Direttore generale di Polizia (era bruttissimo di aspetto, tanto che Ferdinando II in visita a Mugnano mormorò alla moglie "Teré, vi cumm'è brutto Rega); un altro Rega, Giuseppe, nel 1861 fu eletto deputato al Parlamento di Torino, fu Sindaco, Consigliere Provinciale di Avellino, attivissimo nella lotta al brigantaggio e nella cattura del capobrigante Turri-Turri che infestava la zona, amico di De Sanctis, di Michele Pironti, di Giovanni Nicotera, di Agostino De Pretis, infine senatore del Regno.
Tragico e insanguinato fu il 1799 per Mugnano.
Nonostante la fedeltà alla Badia ed alla Casa dell'Annunziata, i "patrioti Mugnanesi" eccitarono i cittadini alla rivolta, capeggiati da Matteo Vasta e don Tommaso Vasta che sarà rappresentante della Terra di Lavoro nell'assemblea napoletana del 1820. 
Quando giunse a Mugnano la notizia che i francesi avevano costituito a Napoli la Repubblica Partenopea, i "Patrioti Mugnanesi" piantarono nel rione Archi l'albero della libertà e crearono un municipio repubblicano. Ma altri mugnanesi, impressionati dalle notizie che giungevano dalla Francia e dai saccheggi che i Francesi facevano a Napoli, fecero una "insorgenza", e tre "insorgenti" furono tradotti a Napoli e fucilati.
Avanzando verso Napoli il cardinale Ruffo, i Borbonici presero coraggio, abbatterono gli alberi della libertà, perseguitarono i repubblicani, rioccuparono Mugnano, intrappolarono la "Colonna Campana" del maggiore Spanò, ne uccisero i componenti nel vallone del ponte. La gente fuggiva, le campane suonavano a stormo, accorrevano mercoglianesi e montoresi, una carneficina di repubblicani fu fatta a Ponticello di Cardinale; alcuni si aggiravano tra i cadaveri, altri piangevano i loro morti, centocinquanta repubblicani finirono i loro giorni nella gola del Gaudio; ma anche i borbonici caddero insieme con i repubblicani, e il cardinale Ruffo potette avanzare tra i cadaveri, il 10 giugno 1799. 
Scrisse Carlo Botta che la gente era contenta di "vivere sotto quell'imperio che dalla sorte era loro proposto", non era preparata ad accogliere le idee della Rivoluzione, vedeva e temeva le sopraffazioni francesi.
* * *
Non si può parlare e scrivere di Mugnano senza parlare o scrivere di Santa Filomena. 
Una stradina alberata si distacca dalla via Regia, e porta diritto al Santuario, semplice, affiancato da due basse torri campanarie; è intitolata a Francesco De Lucia, il sacerdote mugnanese che portò qui le spoglie della santa.
La storia di S. Filomena è una storia strana. Nell'anno 1805 un sacerdote di Mugnano, don Francesco De Lucia, trovandosi a Roma, ottenne dal Conservatore delle Sacre Reliquie di poter trasportare al suo paese il corpo di un martire. Recatosi nelle catacombe di Priscilla, sulla via Salaria, scelse un corpo custodito in una cassetta di legno. La cassetta conteneva, oltre ad alcune ossa, un'ampolla con tracce di sangue. Usavano i primi cristiani conservare queste ampolline insanguinate, a ricordo del martirio subìto dal fedele martirizzato. La cassetta era collocata in una nicchia, e la nicchia era segnata da una scritta su tre pezzi di argilla. I tre pezzi erano stati collocati in modo da poter leggere le parole "Lumena//Pax Te//Cum Fi"; sulle tavolette di argilla alcuni segni rappresentavano un'ancora, una freccia, un flagello, una palma, un giglio, cioè i segni del martirio, il trionfo della vergine martire, e un annegamento. Si congetturò che il martirio fosse stato subìto al tempo della persecuzione di Diocleziano, nel terzo secolo. Bisognava interpretare la scritta. "Pax tecum" era il saluto dei cristiani al defunto. E il resto? Si congetturò che l'operaio sterratore, per imperizia o ignoranza, non avesse collocato con ordine i tre pezzi di argilla, perché avrebbe dovuto mettere il primo di essi all'ultimo posto, in modo da poter leggere "Pax Te// Cum Fi// Lumena.
Il buon parroco ebbe così alcune sacre reliquie, attribuì ai resti del misero corpo un nome, quello di Filomena, e se ne tornò al paese il 1° luglio 1805. 
Nel viaggio di ritorno fece tappa a Napoli e si fermò in casa di don Antonio Terres, libraio alla strada San Biagio. Qui il contenuto della cassetta fu attentamente osservato, e si arguì che trattavasi del corpo di una fanciulla di dodici o tredici anni. Le ossa, esili e fragili, vennero collocate in un busto di cartapesta; il busto venne coperto di ricche vesti; il capo venne sistemato in una teca. La "Relazione istorica" redatta dallo stesso don Francesco De Lucia, stampata nel 1831, riporta testualmente: "Fu vestita di un abito di seta color bianco con sopravveste rossa, simbolo l'una e l'altra della virginità e del martirio; nel capo le fu adattata una capellatura di seta color castagnino scuro, e sopra di essa si pose una ghirlanda di fiori di canutiglie germaniche; nella destra stringeva una freccia con la punta rivolta verso il cuore, e nella sinistra la palma e il giglio. Abbigliato così, il corpo di Santa Filomena fu collocato dentro un'urna d'ebano, ed, essendo questa alquanto angusta, si dové il sacro corpo adagiare giacente su un lettino di seta rossa con due somiglianti guancialetti al capo, e in quella positura elevavansi sensibilmente le ginocchia".
Povera Filomena: prima il martirio, poi l'adattamento del nome, poi l'urna stretta, poi la positura scomoda con le ginocchia sollevate!
Eppure, così vestita, così adagiata, piacque moltissimo.
Il 9 agosto di quel 1805 ebbe luogo la traslazione, tra una folla strabocchevole venuta da Nola, Sperone, Baiano, Quadrelle, con indescrivibile entusiasmo. L'urna fu collocata nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Mugnano, e il culto assunse subito dimensioni straordinarie, propagandosi non solo tra i paesi dell'Irpinia, ma anche in Basilicata, Terra di Lavoro, Puglia, Umbria. Finanche in Francia furono eretti Santuari in suo onore, a Sempigny e ad Ars (dove fu cara al curato di Ars), nella Spagna, in Austria, Germania, e anche in America, dove il culto fu diffuso dagli emigranti. Sicché non mi sono meravigliato quando ho visto la sua immagine in un'edicola situata in un maso di Costalovara, sull'altipiano del Renon. 
Nella chiesa di Mugnano, che poi divenne il Santuario di Santa Filomena, fu apposta questa lapide sul basamento dell'altare: "Hi tres lateres / Ossa divae Philumenae V. et M. / fere XV saeculis tumulata / servarunt". Sul muro di destra vedo un'altra lapide: "Haec superposita inscriptio Sanctae Virginis et Martyris Philumenae adstabat ante eiusdem sepulcrum in catacumbis urbis almae Romae. Hoc sacrum venerandum et valde singulare monumentum symbolis et figuris martyriorum refertum eisudem Martyris sacellum fuit donatum et huc missum die IV augusti reparationis nostrae MDCCCXXVII".
In un vano della cappella una custodia di argento dorato conserva l'ampolla con le tracce di sangue, donata da Maria Teresa d'Austria, seconda moglie di Ferdinando II di Borbone. E cominciarono le visite e le donazioni.
Vennero a Mugnano per adorare Santa Filomena la regina Maria Isabella moglie di Francesco I, la regina di Francia Amalia Borbone moglie di Luigi Filippo, la regina Maria Cristina di Sardegna vedova di Carlo Felice, l'Infante di Spagna, l'imperatrice del Brasile Maria Teresa, il re Ferdinando II e la sua prima moglie Maria Cristina di Savoia, che volle fondarvi un educandato. 
Si legge nel processo di beatificazione che questa regina "pari cultu et devotione ferebatur in S. Philumenam, ad eam honorandam" Vi accorsero vescovi, arcivescovi, cardinali, e lo stesso Pontefice Pio IX, in un tripudio popolare, il 7 novembre 1849.
Vennero narrati e raccolti miracoli, si ebbe anche un movimento "filomeniano", si scrissero opuscoli (come quello di Dumas), si scolpirono statuine come quella fatta dal Dupré. Anche Benedetto Croce le dedicò un opuscolo nel 1931, in cui, dinanzi alla narrazione dei tanti miracoli, aggiunge che la Chiesa sta a vedere, lascia fare, sempre accorta e cauta.
Ci si ferma a guardare il simulacro, quella strana positura della santa sdraiata sul fianco, i cuscini di velluto, e fiocchi, perle e collane ed ex voto. Il culto è diventato fanatismo, nonostante le riserve che ne fecero gli studiosi De Waal, Delahaye, Marucchi, a proposito delle tegole rinvenute nella catacomba e dell'indentificazione del corpo fatta dal De Lucia. Alla fine, la Sacra Congregazione dei Riti, nel 1961, ha tolto dal calendario liturgico il nome di Santa Filomena (documento AAS, LIII).
Ma i Mugnanesi e i devoti sparsi nel mondo continuano nel culto e nella devozione, e continuano a costruire torri ornate di gigli, continuano a danzare ritmicamente dinanzi alla statua. Non c'è contraddizione, perché la credenza nell'intercessione dei santi è uno dei modi per collegarsi con Dio.
Appartengano quelle ossa a S. Filomena o ad altra martire cristiana, ci sia o no una decisione della Congregazione dei Riti, migliaia di ragazze irpine continuano a chiamarsi Filomena, e la devozione rimane salda negli animi. Il bisogno di credere, di aver fiducia in Dio, di cercar rifugio contro le traversie del quotidiano, fanno il resto, e le contadinotte irpine vengono sempre qui, cantano e pregano. Questa è il miracolo della santa misteriosa.

Mi piace sostare in questa bella campagna. Ad un tratto odo un succedersi di strofe musicali, lamentevoli, con brevi pause e rapide riprese. E' un usignolo, fra gli arbusti. Questo canto mi riporta alla storia di Filomena. Benedetto Croce osservò che la seduzione esercitata dal nome Filomena poteva derivare dal suo accostamento con "filomela", nome greco dell'usignolo.
Ovidio trattò delle trasformazioni di Progne in usignolo, nel sesto libro delle Metamorfosi.
Tèreo di Tracia aveva sposato Progne, ed era nato Iti. Ma Tèreo fu sconvolto da una passionaccia per Filomela, sorella di Progne, e la violentò. Invano si oppose Filomela, perchè Tèreo "le afferra la lingua, gliela attanaglia, e la mozza col ferro crudele; tremava il mozzicone, la parte troncata giaceva e guizzava su l'atro suol, qual coda di serpe recisa". 
L'atto violento scatena la vendetta delle sorelle, che uccidono Iti, "le membra sbranano che palpitavan ancora, non morte del tutto" e all'ignaro Tèreo "imbandiscono la mensa con quelle carni". Dov'è Iti? chiede Tèreo. "Quello che brami l'hai dentro di te", rispondono. Questa crudeltà non lasciarono indifferenti gli Dei. Progne fu tramutata in usignuolo, e volò nelle selve; Filomela fu tramutata in rondine, e riparò sui tetti; Tèreo fu trasformato in uccello con becco lunghissimo e cresta sul capo, l'upupa.
Questo è il mito antico, riportato da Ovidio. Filomela, diventata rondine, svolazza sui tetti, scende come saetta fino a terra, rapida s'innalza, garrisce, ma non canta, perché le fu tagliata la lingua.
E' suggestiva l'ipotesi di Croce che riferisce, riportando dalla Relazione di don Francesco De Lucia: "La dolcezza particolare e soave del nome Filomena, la greca e latina erudizione che l'accompagnava nelle favole dei poeti... gli accendevano lo spirito" e la voce di Filomena lo incitava ad "accettare il suo corpo con quel bel nome soave ed amabile". La seduzione esercitata dal nome e dai ricordi umanistici era evidente nel buon prete, che fu ben lieto di attribuire al corpicino trovato nella catacomba il nome che somigliava a quello dell'usignuolo, "filomela".
In onore e in ricordo di Santa Filomena Mugnano ha riesumato un'altra tradizione, quella dei "battenti". Nella seconda domenica di agosto, molti devoti della santa mugnanese percorrono, a piedi nudi ed a passo di corsa, alcuni chilometri, senza mai fermarsi; se devono fermarsi, continuano a battere il passo. Perciò si chiamano "battenti". Hanno un caratteristico costume: canottiera, mutanda, fascia rossa a tracolla, e un cero in mano; si fermano solo davanti alla scala che porta al Santuario, e in ginocchio la salgono e si avvicinano all'altare. L'esaltazione religiosa contamina anche i bambinbi, che, vestiti da "battenti", seguono gli adulti nella caratteristica danza.
Un'altra strana storia era diffusa a Mugnano, la storia di un processo alle cavallette, riportata in un libro di Memorie di don Pietro Foglia e ripetuta da don Picariello. Nel 1640 uno stuolo di cavallette produsse enormi danni alle coltivazioni; viste vane le preghiere e i tridui, si convocò un Tribunale di Giustizia, cui non fu estraneo il Vescovo. Le cavallette furono condannate all'esilio su Monte Somma, e "come Dio volse, le cavallette si ritirarono, lasciando distrutti i raccolti". 
Non prendetevela con Mugnano, perché di processi contro defunti e contro animali sono piene le storie di molti paesi.

cfr. 
Gennaro Ippolito, Santa Filomena V. e M. , Dell'Italia 1870
Benedetto Croce, Santa Filomena, Ricciardi 1931
Giovanni Picariello, La valle Muniacense, Graficamodeo 1995.
Giovanni Picariello Mugnano Cardinale nel tempo, Banca di Roma 1993
Gennaro Ippolito, Memorie e culto di S. Filomena, Napoli 1870